#iononlaspengo3 – Le “Istituzioni di diritto commerciale” di Cesare Vivante In evidenza

Angelo Sconosciuto Maggio 02, 2020 2968

vivanteProfessore di diritto commerciale nelle università di Sassari, Messina, Parma e Firenze e tra i maggiori cultori della sua disciplina, Giuseppe Valeri nel 1937 curò per l’Enciclopedia italiana la voce biografica di Cesare Vivante, una gloria del diritto italiano che nel 1903 aveva fondato la «Rivista del diritto commerciale» e che allora aveva 83 anni.

 A febbraio dell’anno successivo Valeri, assieme ad Asquini e a Mossa, sarebbe succeduto al Vivante nella direzione della rivista non per una questione di età, ma perché l’ottuagenario grande studioso del diritto commerciale italiano fu costretto a lasciare l’incarico in seguito all’entrata in vigore delle leggi razziali: non una parola su quelle infauste norme, ma l’invito e il compito affidato «a un gruppo di colleghi più giovani» di pensare con maggior energia alla «revisione necessaria della (…) disciplina».

«La figura di Cesare Vivante è emblematica testimonianza della dialettica fra società civile, società politica ed esperienza giuridica propria dell’Italia tra Otto e Novecento e destinata a crescere nella contrapposizione fra modelli individualistici e modelli collettivistici di sviluppo istituzionale», ha scritto di recente Alberto Sciumè, quando ha letto la figura di questo giurista, occupandosi del contributo italiano alla storia del pensiero lungo il versante della scienza del diritto.

«Nella filigrana dell’esperienza del giurista veneto è possibile vedere riflesse le molte stagioni attraversate dall’Italia dalla nascita delle istituzioni unitarie al tramonto dello Stato totalitario», osservò ancora, facendo proprie le osservazioni di un altro padre nobile del diritto commerciale italiano, Tullio Ascarelli, che esattamente sessant’anni addietro, descrivendo la figura del maestro, l’aveva trovata carica tanto di «un effettivo liberalismo», quanto di «un solidarismo sociale che guardava con simpatia all’ascesa delle classi proletarie».

Docente universitario a 27 anni, chiamato poi per chiara fama all’Università di Roma non ancora quarantaquattrenne, Cesare Vivante fu maestro del diritto e partecipò in maniera considerevole alle attività di carattere istituzionale oltre a svolgere un’intensa attività forense, perché – come scrisse l’Asquini – la professione dell’avvocato era «il naturale completamento della sua missione di insegnante». E dunque il suo capolavoro fu la «Rivista del diritto commerciale», anche perché in quel periodo in Italia vi era un Codice civile ed un Codice commerciale da riformare, tanto che proprio Vivante fu presidente della Commissione per la riforma del Codice di commercio del 1882, voluta nel 1919 dal ministro Lodovico Mortara (anche lui insigne giurista).

Accanto alla «Rivista», ecco le sue creature più note: il «Trattato di diritto commerciale», il primo volume del quale risale al 1893 ed ebbe 5 edizioni, e le «Istituzioni di diritto commerciale» che – lo ricordiamo - ebbero ben 58 edizioni e numerose traduzioni. Tre pilastri al pari del triplice impegno del Vivante di docente universitario, di uomo impegnato nelle istituzioni, di avvocato.

E come d’un tratto, nella nostra biblioteca “Granafei” ecco che al V G 56 troviamo proprio la 19ª edizione delle «Istituzioni di diritto commerciale», stampate da Ulrico Hoepli «Editore della Real Casa» a Milano un secolo addietro e inserite nella collana di «Studi giuridici e politici» nella sezione delle «Istituzioni di diritto positivo per le scuole secondarie e superiori». Già, perché allora come ora le «Istituzioni» servono a dare le linee portati delle diverse questioni di una materia e generalmente hanno una editio minor, destinata alle scuole superiori, ed una editio maior dove le discussioni essenziali e quelle complementari vengono ben distinte dal corpo tipografico del testo.

Le «Istituzioni di diritto commerciale» del Vivante erano il testo più in voga in quell’epoca ed offrono una considerevole visione che può esser utile anche al giurista attuale che voglia approcciarsi in maniera non banale alle questioni più classiche del diritto commerciale, certamente surclassato, in questo secolo da tutto ciò che la politica internazionale e interna e la scienza economica sono stati in grado di determinare. Molte questioni, tuttavia, partono proprio da quel sasso nello stagno lanciato dal Vivante quando formulò la «proposta di unificazione delle obbligazioni civili e di quelle commerciali», convinto com’era della «necessità di operare per sviluppare un’unità di intenti capace di costruire la società moderna secondo criteri di profonda omogeneità e integrazione fra le sue diverse componenti; la spinta propulsiva che le forze del lavoro, organizzate solidaristicamente, sono in grado di fornire alla crescita della società nel suo complesso; e ancora soprattutto, ben salde, l’attenzione all’esperienza concreta del mondo economico e sociale e la sensibilità verso l’influenza innovativa che la pratica commerciale è in grado di esercitare sulla disciplina giuridica dei rapporti economici». L’attenzione alla storia quale componente fondamentale per la valutazione dell’appropriatezza di un’architettura giuridica determinata, secondo gli studiosi contemporanei, è stata peculiarità della riflessione vivantiana e Paolo Grossi, ad inizio di questo secolo XXI e qualche anno prima che diventasse prima giudice e poi presidente della Corte costituzionale non esitò a scrivere: «il giurista non deve mai dimenticare che il diritto è ordinamento del sociale e non può mai inaridirsi in un corpus iuris prestabilito. La metodologia vivantiana guarda alla vita; e proprio in forza di questo vitalismo guarda alla storia del passato che è vita interamente vissuta e che è in grado di esprimere un messaggio perfettamente compiuto, alla storia in atto, all’esperienza quotidiana che vive il presente ma che sta già presagendo il futuro e disegnando il futuro».

E Sciumè, in anni più vicini a noi, ha sostenuto che «del richiamo metodologico alla storia e all’esperienza vale la pena di sottolineare la connotazione non empirica con cui il giurista veneziano impiega il termine esperienza», spiegando che «il punto di partenza è certamente l’osservazione dei fatti, il cui esame da parte del giurista richiede però una profondità di percezione scientifica essenziale per consentirne la valutazione non soltanto quale fenomeno che racchiude tutto il conoscibile limitando l’azione dell’interprete, ma anche quale dato in cui è circoscrivibile la natura, il significato di cui è portatore». Allora, le «Istituzioni» conservate a Mesagne possono leggersi in filigrana non tanto per trovare risposta puntuale ad una delle questioni di diritto positivo che vengono poste attualmente, ma per individuare un metodo di operare e per capire le ragioni storico-giuridiche del nostro essere qui, ora. Tullio Ascarelli nel 1960 evidenziò che «il limite della posizione vivantiana era forse quello stesso dell’Italia giolittiana». Sciumè chiosò: «Quanto funesto sia stato per l’Italia il restare racchiusi in quel limite si sarebbe reso evidentissimo con il tragico epilogo totalitarista dell’esperienza politica liberale». E noi concludiamo sulla necessità di leggerlo, Vivante, conservato nella nostra “Granafei”, perché sul mercato antiquario al momento non passano copie delle sue opere e al massimo si possono reperire, on demand, nella solita editrice in India, che stampa di tutto e di più… Vivante «rimproverava al codice di favorire gli interessi dei commercianti (anzi, del grande commercio) – ha scritto di recente Padoa Schioppa – a scapiti di quelli di tutti gli altri ceti, e in primo luogo dei consumatori». Volete che dunque quelle idee non siano di stringente attualità? 

Ultima modifica il Venerdì, 01 Maggio 2020 22:32